sabato 6 aprile 2013

ILLAZIONI SU UNA FOTO

Non so chi abbia scattato questa foto, né quando, ma sembra un ritratto della solitudine ai tempi di Facebook: un'immagine che si ripete da uno specchio all'altro, per un istante, uno sguardo che rimbalza da ma superficie all'altra fino a non vedere più nulla, a non essere più nulla. L'unica direzione in cui guardare è quella della figura a sinistra, la sola vera, che guarda un ultra uomo, anch'egli vero, con la sua macchina fotografica - un obiettivo che compie un miracolo: moltiplicare lo sguardo deviandolo, rivelare un lato del volto che lo sguardo diretto, di norma, nasconde, rimanendo a propria volta nascosto.
È una modalità di esistenza: una tra molte. Si perde e si guadagna, sono le regole del gioco. Se penso a Jonesco e a Beckett, mi chiedo cos'avrebbero scritto oggi! Altro che Godot o il Rinoceronte! Ma allora l'angoscia poteva legittimamente diventare urlo, e la solitudine (l'isolamento) accettava di mostrarsi. Oggi no, siamo tutti on line, connected, linked in: chi si sente solo se ne vergogna, e finge di non esserlo, anzi: persino tra sé e sé, tenta di dirsi che non è così.
È una solitudine nuova, questa: la solitudine come colpa. Ammetterla, dirla, scriverla su Facebook (in risposta alla cortese domanda del premuroso network: come stai? A cosa stai pensando?) significa ricevere perle di stizzita empatia o deliziose lezioncine di bon ton: qui su FB siamo nel migliore dei mondi possibili, se non ti sembra così è perché sei un presuntuoso (e infatti, "amici" ne hai 300 o poco più, e i "mi piace" da qualche tempo in qua scarseggiano sulla tua pagina... Non è che dovresti farti un esame di coscienza? Non pensi di essere tu il problema? Io ho tutt'altra esperienza di Facebook...).
Scrivere in un diario una poesia, tracciare in un quaderno o su un computer i caratteri vibranti di un racconto, inseguire la traccia di un pensiero sulla tastiera o sulla carta... nessuno dica a voce troppo alta che lo ha sempre fatto solo per se stesso, perché dubito che possa essere vero. Gli altri - interlocutori, amati o temuti, magari odiati, nel peggiore dei caso blanditi e corteggiati, nel migliore desiderati per stima e desiderio di relazione umana, di gioia, di dono di sè (è possibile, nonostante i dubbi sistematici dei saggi) - sono sempre all'orizzonte, nascosti negli angoli più oscuri della stanza, tra i libri sullo scaffale, o anche solo tra le linee della mano che da tempo non ne stringe un'altra con la sincerità che vorrebbe. Anche quando non si scriva espressamente in vista di una pubblicazione (io stesso ho pubblicato una parte minima di ciò che ho scritto), il brusio delle voci, lo scalpicciò dei passi dalla strada, le figure umane intorno, bene o male, ci sono.
Ma c'è la gratuità: il non sapere se e chi leggerà, sperarlo magari ma non poterlo divinare, cercare il meglio nei propri pensieri per offrirlo come si offrirebbe al vento un mazzo di fiori appena colti, o come si getterebbe del grano in un campo che nemmeno ci appartiene, che non può dare a quei semi nessuna garanzia. Di questo hanno bisogno, esattamente: di non avere garanzie.
È la gioia quando una lettera dice: ho letto, le sue parole mi hanno fatto del bene. È la gioia quando, alla presentazione, alla lettura, persone vengono e ascoltano, stimano, apprezzano. Una gioia pura, come gioia pura era stato quello scrivere senza troppe speranze, senza troppi calcoli - anzi: senza nessun calcolo. Così è quando ricevi un commento inatteso e raro sul tuo blog, che sostituisce perfettamente una pubblicazione "tradizionale", almeno nello spirito.
Di questa gioia Facebook tende a privarci: ci spinge a controllare la risposta, a quantificare la stima, a cercare il consenso - sottilmente, in modo pervasivo: non è una colpa esserne coinvolti, ma forse è questa l'origine del senso di aridità e di insoddisfazione che le pagine di Facebook, a poco a poco, tendono a suscitare. Se ne sono accorti i soliti psicologi americani, in uno studio divulgato anche sui nostri quotidiani, ma ne hanno attribuito la responsabilità alla continua constatazione dei successi degli altri, al continuo confronto con la felicità che gli altri, spesso fingendo, esibiscono sulle pagine. Non credo che sia questo il punto: il nemico, per lo più, è dentro di noi. È quella gratuità, quel rischio, quell'impossibilita di controllo che rendono umano il nostro dire e scrivere: senza di loro, nasce un senso amaro che dilaga in noi, anche in mille altre occasioni (il lavoro, gli acquisti, il tenore di vita, la casa, l'abbigliamento...).
Chiudere Facebook? Condannarlo? Ma no, perché? La sua struttura è tale da suscitare un'ansia sottile: è bene saperlo, tutto qui.
Rientrare in se stessi, ripensare il proprio essere nel mondo. Ancora più grande sarà la gratitudine per quei miracoli di umanità che avvengono, a volte, anche su Facebook: perché non è Facebook l'origine dei miracoli, ma l'incontro tra le persone. Nessuno lo può controllare né misurare: la stima è sempre un dono e non si può quantificare; anche aspettarsela è come profanarla, a volte. Il mezzo - lettera, telefono, incontro, mail, FB, Google+, linkedIn... - è solo un mezzo, anche se non sempre il migliore in assoluto: la sostanza però, è in noi, nel nostro atteggiamento profondo. A ognuno ciò che più gli è congeniale, perché non vada perduta la possibilità della gioia. È lo sguardo nello sguardo, o poco oltre.
A ognuno il suo. Attentamente.


1 commento:

Lorenzo Gobbi ha detto...

Da Bucarest, mi scrive il poeta Geo Vasile:

SOLITUDINE COME COLPA. Questa volta tu fai centro nell'immaginario della società postmoderna; nel contempo la tua scrittura ha quella proustiana gratuità analitica e psicanlitica, quel movimento musicale andante ma non troppo, quasi confessivo (biografismo), quasi oggettivo(fiction), G.